sabato 16 marzo 2019

La fine dei giorni

Mi ritrovo a constatare, dopo quasi tre lustri di blogosfera, che non ho mai scritto di prostituzione.
Il motivo non ho difficoltà ad individuarlo.
Essermi rinchiuso in una sorta di bolla, con sempre meno interlocutori sempre più selezionati, dove vige una sorta di convenzione liberale, ha reso superfluo, pleonastico, parlare di prostituzione.
La pratica volontaria della stessa, come la scelta di acquistare i servizi di una persona che si prostituisce, rientrano nell'esercizio di quella autodeterminazione che è cardine del pensiero liberale.
Ciò che due o più persone adulte decidono di scambiarsi non è cosa che possa riguardare altri, a meno che non arrechi loro danno o fastidio grave.
Sul proprio corpo, sulla propria mente, l'individuo è sovrano.
Se non c'è vittima non c'è reato.
Sul concetto di prostituzione non ho naturalmente mai pensato fosse necessario esprimermi.
Rifiutando l'opzione anarchica, a vantaggio di uno stato liberale garante delle libertà dei cittadini, in questo come in altri casi, come stupefacenti e fine vita, la mia posizione è netta a favore della legalizzazione.

La legalizzazione, operata su quella che è una scelta libera e legittima dell'individuo, ha alcune immediate conseguenze.
Prima di tutto garantisce, riconoscendola, la libertà della persona.
In secondo luogo presidia l'esercizio di quella legittima scelta, in modo che siano garantiti i diritti di tutti.
Garantisce inoltre che tutti partecipino secondo le loro possibilità al finanziamento della spesa pubblica.
Sottrae infine le attività legalizzate alla clandestinità, dove non ci sono diritti, non ci sono garanzie, non si pagano tasse e dove per contro si creano vasti spazi per l'esercizio illegale da parte di organizzazioni necessariamente criminali, garantendo a queste ampi margini di guadagno, ancora una volta occulto e quindi esentasse. La contiguità con la criminalità organizzata, imposta dalla mancata legalizzazione, espone i soggetti che, in teoria, esercitano un loro legittimo diritto a rischi penali e personali accessori indotti. Quello che si chiama effetto criminogeno.
La prostituzione è addirittura esempio emblematico di queste situazioni; non posso quindi che dichiararmi assolutamente favorevole alla sua legalizzazione.

Se sul piano giuridico l'argomento può a mio modesto parere ritenersi definito, privo di zone d'ombra, ben'altra cosa è il piano sociale, sociologico e psicologico.
Sul piano sociale, dal lato dell'offerta, ancora una volta allargando il campo d'indagine, il fatto che ci siano dei lavoratori che per la normale esigenza di procurarsi un reddito per vivere debbano sottoporsi a lavori umilianti, degradanti, pericolosi o semplicemente mal retribuiti è un problema reale, di cui lo Stato, nello specifico la Repubblica Italiana, ai sensi della Costituzione, deve farsi carico. Lavori come quelli, oltre un certo limite, diventano incostituzionali.
Oltre un certo limite, nel senso che il lavoro ha intrinsecamente un elemento di disagio per il lavoratore, a cominciare dal fatto che il tempo di lavoro è almeno in parte sottratto al tempo di vita e erosivo del tempo libero e del riposo.
Il lavoro è spesso fatica, ma anche tensione, stress, pericolo, giudizio, subordinazione.
E tutto ciò non lo rende incostituzionale, in quanto insito nel lavoro stesso.
Ancora una volta, ciò che opera al fine del rispetto delle condizioni minime di lavoro è l'azione regolatrice e di garanzia dello Stato, che segue la legalizzazione.

Sul piano sociologico, l'argomento si fa oceanico.
È la questione di genere in una della sue molteplici declinazioni.
L'asimmetria nell'approccio alla sessualità e all'affettività dei generi maschile e femminile, storicamente e culturalmente consolidata, fa sì che la domanda, primaria, sia sostanzialmente, nei numeri, maschile, e l'offerta, secondaria, sia quasi del tutto, sebbene con consistenti variazioni ed eccezioni, femminile.
La prostituzione stessa, ma sopratutto i suoi aspetti più degradati e degradanti, che nessuna legalizzazione da parte di uno stato liberale potrà mai includere, e tutta la violenza di genere, senza possibilità di individuare una precisa linea di demarcazione tra le due, dipende dall'esistenza di una compulsiva domanda maschile.
Esiste, ma numericamente irrilevante, tuttavia rilevabile, anche una domanda femminile e più in generale una variegata domanda non prettamente maschile.
È in questa prospettiva della asimmetria suddetta che si evidenzia un punto nodale da cui partire.
Se fosse il piacere, ed il suo bisogno compulsivo, a generare la domanda, non ci si spiegherebbe tale asimmetria, essendo il piacere sessuale presente in tutti gli esseri umani.
La fisiologia, pur prodiga di spunti, non mi pare un filone capace di offrire sufficienti elementi per giustificare una tale asimmetria.
Più generose di promesse mantenute appaiono l'antropologia, e la Storia, che ci insegnano che i modelli  di civiltà umana, di organizzazione sociale e politica, che nel tempo si sono rivelati capaci di vincere la lotta per la sopravvivenza contro le formazioni rivali e la natura stessa sono quelle violente, patriarcali, maschiliste e misogine.
Qui è il caso di recuperare quell'asimmetria fisiologica enorme, macroscopica, che non va identificata nel piacere, quanto nella riproduzione che quello precede e favorisce.
Nella necessità di controllare ed incanalare la capacità della donna di dare alla luce l'erede, queste società patriarcali hanno elaborato un modello culturale maschilista, dove la donna è inferiore all'uomo, dove il desiderio femminile deve essere impuro, moralmente sconveniente, subordinato alla riproduzione dell'erede.
Il maschio costruisce, combatte, conquista, depreda, sottomette, accumula, solo se ha la presunzione che il suo seme, la sua discendenza certificata, erediterà il suo patrimonio, parola chiave.
L'utero è lo scrigno dove sono riposti i sogni di immortalità del maschio. Il corpo della donna è la sala del tesoro, la cultura maschilista è la guardia armata che veglia sul tesoro, il piacere femminile è il complice che apre la porta dall'interno al ladro che attenta al tesoro.
Si capisce come in alcune culture particolarmente retrograde, l'escissione della clitoride diventi un antifurto necessario. L'eradicazione del male.
Di riflesso, la stessa cultura maschilista necessita di un maschio che al piacere sessuale assomma e sostituisce l'imperativo di dominare la donna, che significa prima di tutto mettere il proprio seme nello scrigno.
Un furore cieco, una coazione a ripetere che nell'esacerbarsi ha finito per perdere di vista l'aspetto procreativo e concentrarsi sulla penetrazione a prescindere dall'oggetto penetrato.

Molti sono nella storia anche antica gli esempi  di superamento di questo schema; è la storia della civiltà, ed in particolare della civiltà occidentale, con le sue radici ellenico-giudaico-cristiane, e il suo culmine che è rappresentato da quel pensiero liberale richiamato all'inizio del discorso.
Il valore sacrale della vita, di cui siamo debitori al cristianesimo, la cui matrice misogina tuttavia ne fa uno delle roccaforti del pensiero maschilista.
Il valore della libertà, frutto maturo dell'umanesimo culminato nelle rivoluzioni sette-ottocentesche, che nella lotta contro gli assolutismi hanno dato l'avvio alla demolizione del patriarcato, perlomeno sul piano politico.
La parità e l'uguaglianza delle persone senza distinzione di genere, di etnia, di religione e convinzioni politiche, che è invece frutto del per altri aspetti tragico novecento.
Nel primo mondo queste sono conquiste giuridiche e culturali oramai consolidate sul piano formale.
Sul piano sostanziale la vita, la libertà ed il rispetto delle fasce deboli della popolazione sono ancora bisognose di cura e tutela.
Altrove - gli esempi abbondano - anche il piano formale paga un notevole ritardo.

Dopo le lotte sindacali per i diritti dei lavoratori, il movimento per i diritti dei neri e per l'indipendenza delle colonie, la liberazione e l'emancipazione della donna, partita con le suffragette, culminò con il movimento per la liberazione sessuale del 1968, poi si arrestò.
Insomma, c’era una grande promessa di felicità all'indomani della rivoluzione sessuale del 1968 e della rivoluzione femminista.
C’era una grande scommessa che ballava sulla pelle del mondo, quella di essere uomini e donne libere. Ma quando come donne abbiamo finito di dire agli uomini tutto quello che in loro non andava, non abbiamo avuto il coraggio di fare lo stesso con noi, e ci siamo rinchiuse nuovamente nell'ipocrisia e nei sensi di colpa che sono le facce con cui il potere, maschile e femminile, da sempre ci imprigiona e determina il nostro stesso vivere.
Avevamo una grande occasione. Avremmo potuto sederci attorno a un tavolo, uomini e donne, per ascoltare come eravamo, per vederci con gli occhi dell’altro e per capire fino in fondo chi eravamo. Confrontando dalle rispettive postazioni le nostre miserie e le nostre paure, gli egoismi e gli slanci avremmo scoperto l’altro.
Avremmo potuto parlare dell’assolutezza del potere materno all'interno delle famiglie, della indispensabile funzione paterna di presa in carico della realtà. Della difficoltà di possedere e poi separarsi da una madre, della difficoltà di crescere quando manca un padre. Della difficoltà di trasformare l’invidia che ogni generazione deve affrontare nella crescita della successiva generazione per offrire un percorso evolutivo nell'esistenza.
Sarebbe stato importante confrontarsi con la fatica della comprensione di come cambiava lo spazio pubblico per gli uomini con l’irruzione delle donne, e come cambiava l’umano, maschile e femminile, se ad essere alterati erano i meccanismi di cura materni delle generazioni successive, e chiederci se la nostra libertà corrisponde solo ai nostri bisogni privilegiati di adulti e non al diritto di chi venendo al mondo in quello stesso tempo non può fare altro che sottostare.
Monica Pepe, MicroMega, 17 novembre 2017 
Questo è il punto in cui il processo si è fermato. Non del tutto. Non per sempre.
Ma quel processo di liberazione e di esaltazione dell'essere umano, che, partendo da Petrarca, passando per Giordano Bruno sino ai filosofi liberali degli ultimi secoli, si sarebbe potuto completare con l'entrata a pieno titolo della donna da pari nell'umano consorzio, si è interrotto, esattamente dove dice Monica Pepe, "ci siamo rinchiuse nuovamente nell'ipocrisia e nei sensi di colpa". Ha prevalso la paura.
Paura di scoprire di non essere se stessi, o perlomeno non solo, ma essere qualcuno o qualcosa che altri hanno deciso che fossimo.
Paura di non sapere più chi siamo, una volta asportare le formazioni parassitose che abbiamo sempre pensato fossero parte essenziale di noi. Confondere una asportazione con una amputazione.
La nostra identità di maschi e di femmine, la nostra identità di figli e di figlie, di mogli e mariti, da buttare all'aria e ricostruire.
Ricostruire. Ricostruire, se non si vuole che la liberazione dell'essere umano coincida con la sua estinzione, "per offrire un percorso evolutivo nell'esistenza", sempre Monica Pepe.
Dicevo all'inizio che sopravvissero le formazioni sociali maschiliste, ma non perché non ce ne siano state di differenti, ma semplicemente perché non hanno avuto discendenza, non hanno lasciato eredi.
I neanderthal pare fossero pacifici e riflessivi; noi sapiens buzzurri attaccabrighe abbiamo finito per farli estinguere, ad eccezione di qualche gene sopravvissuto agli stupri etnici.
Sembra che in quel fatidico 1968 sia stata sfiorata un'epocale catarsi del mito platonico degli ermafroditi. Il mito delle anime gemelle, separate da Zeus per invidia, né più né meno come quello della cacciata di Adamo ed Eva dal paradiso terrestre, ci danno conto della misera condizione umana. Uomini e donne, separati alla nascita, l'un contro l'altra armati.
Uniti potremmo conquistare il cielo, ma Monica Pepe ha detto bene anche lì, "avevamo una grande occasione".
Invece ci troviamo imprigionati in questa asimmetria, con questa differenza di potenziale che ci allontana invece che avvicinarci. Esseri incompleti, figure di un teatrino delle ombre a recitare un copione scritto da altri.
Ancora non riesco ad immaginare quanto dovrà essere grande quel tavolo attorno al quale dovremo sederci e per quanto tempo occorrerà restarci, ma mi pare l'unica possibilità di superamento di questa situazione. Ma fino a quando resteremo ancorati a quelle identità di genere che fanno di noi delle comparse nella guerra dell'utero, misoginia maschile e femminile, prostituzione e violenza di genere resteranno tratti tipici della condizione umana.