martedì 16 febbraio 2010

Il burqa: libertà e condizionamenti culturali.

«La libertà. Chiunque arrivi, fresco fresco, a darne una definizione innovativa è sicurissimamente uno che te lo vuole mettere nel culo.» (Erasmo)

La proposta francese di vietare il burqa ed il niqab in luogo pubblico ha scatenato un'immediata polemica qui da noi. Era evidentemente una pulsione latente ed inespressa, che ha infatti assunto toni e proporzioni superiori a quelli francesi. In Francia la questione è posta nei termini della difesa dell'identità e della cultura nazionale, cose alle quali la "grandeur" transalpina assegna massimo valore, da non confondersi con grette e volgari questioni di ordine pubblico. In Italia la polemica ha assunto immediatamente i toni del linciaggio per lapidazione, dove ogni argomento, culturale, giuridico, umanitario e di sicurezza ha avuto peso in quanto utilizzabile come pietra da scagliare contro il colpevole.

Chi più chi meno, frugando tra le anticaglie di famiglia, è andato a ripescare quanto possibile: dalla sovranità sul suolo patrio sulle note di "e quest'è casa mia, e qui comando io", al femminismo d'esportazione, paladino dei diritti delle donne sfruttate e vilipese (dagli altri, però, perchè se a sfruttarle e offenderele sono i nostri virguti nazionali, allora l'è un un'altra roba, l'è solo una cosa tra ragazzi), ai Catoni scudocrociati che ci richiamano al dovere di liberare il Santo Sepolcro dagli infedeli al motto: "Provaci te ad andare in giro da loro con un crocifisso in spalla e poi vediamo!", sino all'anziana signora che ammette candidamente di essere intimorita da queste figure velate.

Ho già scritto che la questione dell'ordine pubblico non si pone per il velo in modo diverso da come la stessa si pone per i motociclisti col casco o i mattinieri col passamontagna; la legge richiede a tutti un giustificato motivo per coprirsi il volto e non vedo perchè alcuni motivi siano ingiustificati a priori. L'altro argomento che qui mi interessa discutere è quello umanitario, che vorrebbe, almeno sul suolo nazionale, le donne musulmane libere dalla violenta oppressione dei loro uomini che le costringono ad indossare il velo. Detta così è persino ridicola, nel senso che non si può che essere d'accordo; la libertà personale è un caposaldo della nostra Costituzione ed è un dovere dello Sato e di ogni suo singolo cittadino difendere la libertà di ciascuno ogni volta che questa è messa in pericolo.

Bisogna però andare a vedere in cosa si sostanzierebbe questa difesa della libertà; secondo i duri e puri del divieto tassativo si tratterebbe di fermare per accertamenti, costringere a levare il velo, identificare e multare (immagino che l'arresto lo contemplino solo in caso di recidiva) una per una le donne che circolano con il velo.

Dubito, quand'anche ci si trovasse di fronte ad una delle vittime di effettivi soprusi, che questa vivrebbe l'evento come una liberazione, ma di questo se ne potrà parlare più avanti. Pensiamo invece che ad essere trattata in questo modo sia l'unica cittadina italiana di religione islamica che porta il niqab per propria scelta; si tratterebbe di una gravissima violazione di quella libertà personale ed un caso eclatante di discriminazione religiosa sulle quali la nostra Costituzione è perentoria. Se non si fosse daccordo su questo, cosa certamente possibile, ci si troverebbe di fronte a scenari, anch'essi non impossibili, di messa in discussione del principio stesso di unità nazionale e dell'ordine che lo regge, e se ne potrebbe parlare.

Retrocediamo però da questi scenari e vediamo l'aderenza alla realtà di queste ipotesi. È realmente possibile che una donna libera e sana di mente possa volontariamente scegliere di andare in giro con il volto coperto da un velo? O si tratta sempre di una violenza che subisce e levarglielo è sempre uguale a liberarla?

Se noi ragioniamo con la testa di una donna occidentale del 21mo secolo è chiaro che risulta difficile avvalorare la tesi della libera scelta; il velo non appartiene (più) alla nostra cultura e ad i nostri costumi ed è quindi difficile pensare che una donna italiana lo possa indossare se non costretta. Se proviamo metterci nei panni di una donna araba, la cosa può apparire differente; prima di tutto perchè in quella cultura il velo ha sempre avuto e mantiente tuttora una precisa connotazione religiosa e tradizionale. Una donna col niqab a Terni crea curiosità; la stessa donna in una cittadina di provincia del Regno Saudito non viene di certo notata.
Non trovo niente di strano che una donna, prima bambina, cresciuta in un ambiente culturale simile, abituata ad indossare il velo sin dalla pubertà, non trovi oggi in questo niente di innaturale ed al contrario possa provare un certo pudore a mostrarsi in pubblico senza quella protezione. Certo non sarà il fatto di trovarsi per svariati motivi ad abitare in un paese straniero a cancellare questo pudore. Tutti questi ragionamenti, poggianti su culture diverse dalla nostra e relative a persone ospiti sul territorio nazionale rischiano di apparire deboli nella sostanza; sarà anche così - diremo - ma allora che se ne restino a casa loro!

È utile però provare ad operare una sostituzione nel discorso precedente, invertendo i termini geografici e ponendo al posto della parola "velo" le parole "tacchi alti e gonna corta". Tacchi alti e gonna corta sono indubitabilmente un abbigliamento scomodo, imponendo a chi li indossa una serie di gravi difficoltà e rinuncie, come l'innaturale e faticosa postura di piedi, gambe e colonna vertebrale, la ridotta stabilità ed il precario equilibrio, l'impossibilità di correre e di muoversi disinvoltamente. Eppure molte donne, cresciute con questo esempio ed abituate sino dalla pubertà ad indossare gonne e tacchi, lo ritengono giustamente un loro indiscutibile diritto. Ma siamo così sicuri che un comportamento così oggettivamente autolesionista sia solo e sempre una scelta libera, o piuttosto sia un tributo pagato al conformismo, un prezzo da pagare per sentirsi adeguate, all'altezza, socialmente accettate, e quindi in ultima analisi libere di esprimere appieno la propria personalità?

Operiamo un'altra sostituzione. Coprirsi ha rappresentato per l'uomo prima di tutto un'esigenza climatica, per difendersi dagli agenti atmosferici; molto presto sono subentrate anche funzioni secondarie dell'abbigliamento, quale quella di avere un aspetto più rispondente alle proprie aspettative (sembrare più belli, più forti, più cattivi) o quella di manifestare uno status o un'appartenenza. Alcuni popoli soggetti a coprirsi di più a causa del clima, e complice l'affermarsi della famiglia patriarcale, hanno sviluppato una particolare tendenza a coprire le parti interessate dalla riproduzione e coinvolte di conseguenza nella sfera sessuale ed erotica. Il corpo della donna, icona stessa della fertilità e della riproduzione, è stato nel tempo sottoposto ad un progressivo occultamento che ha raggiunto il culmine appunto nella cultura araba del burqa e nella cultura dell'Inghilterra vittoriana dove si coprivano le gambe del tavolo per pudore.

Il pudore è appunto il sentimento, quanto indotto o quanto riflesso mi sapranno dire lorsignori, che è subentrato nelle donne in particolare che le porta a provare appunto pudoroso disagio a mostrarsi in pubblico più scoperte di quanto quello che ormai è diventato un personalissimo senso del pudore gli richiede.
Nel mondo arabo è il volto; nel mondo occidentale potrebbe essere il seno. Che motivo ci sarebbe per fare il bagno al mare con il costume che poi rimane bagnato e pieno di sabbiae alghe, quindi fastidiosissimo, se non l'esigenza per pudore di tenere coperte quelle specifiche parti. Sorvoliamo sullo slip, per il quale motivi di carattere igienico potrebbero renderne utile l'impiego, ma il reggiseno non ha nessun altro motivo. La donna occidentale media, abituata dalla pubertà a nascondere il seno in pubblico, prova disagio e pudore a scoprirlo ed al contrario, tenerlo coperto le consente di partecipare con agio alla via di relazione e ad esprimere appieno la propria personalità.

Come reagirebbero le nostre donne in visita a Il Cairo, o anche in San Pietro, se le fermasse per strada una camionetta e le costringesse a levare i tacchi ed indossare un orrendo paio di pantaloni lunghi; o come reagirebbe un padre italiano a sentirsi accusato di violenza per aver costretto moglie e figlie ad indossare il reggiseno anche durante una visita in Guayana?

L'equazione velo=violenza non è applicabile e vietare il velo perchè da solo costituirebbe una fattispecie di violenza è esso stesso una violenza nei confronti di tutte quelle persone, italiane e non, che lo indossano perchè ritengono opportuno indossarlo. Altra cosa è la difesa delle persone che subiscono violenza. In questo senso la questione si inserisce a pieno titolo, ma come una delle tante tessere, nel quadro della violenza di genere, quella in cui, per capirci, essere femmine o, meglio, non essere maschi è la causa delle violenze che si subiscono. E qui non si tratta di andare in giro con la camionetta a prelevare bambine sospette o donne che girano con la minigonna nei quartieri periferici, ma di attivare una rete di ascolto e supporto per quelle persone che vivono situazioni di degrado sociale e familiare e hanno bisogno di ascolto, accoglienza e inserimento in ambienti protetti. In questo senso certamente il fatto che una giovane o meno giovane donna porti il burqa deve senza dubbio essere attentamente considerato quale elemento concorrente assieme agli altri elementi emergenti per l'individuazione di una possibile situazione di violenza e per l'attivazione dei previsti protocolli. Un ragazzino con un occhio nero non è cosa per cui debba essere interessato l'assistente sociale, come non lo è una ragazzina che porta il fazzoletto e appena esce indossa anche il velo davanti alla faccia; ma se entrambi presentano delle assenze sospette e hanno delle manifestazioni particolari (ad esempio la ragazzina certi giorni non toglie il velo neanche in classe, o il ragazzino presenta strane bruciature) comincia a delinearsi un quadro in cui l'occhio nero da una parte, il velo dall'altra rendono opportuno interessare l'assistente sociale.

p.s. la frase in apertura è di un blogger che non rientra tra le mie normali letture, che mi capita di incontrare dal comune amico marcoz; proprio dal suo blog ho tratto questa citazione che mi ha sempre colpito, indipendentemente dal significato che l'autore stesso le attribuisce, per il modo in cui rende la mia idea di relativismo, che parte dal presupposto che la verità (e quindi anche una definizioni univoca di libertà) non esiste e chiunque affermi di averne una e cerchi in qualunque modo di imporla come tale non può che avere fini prevaricatori. Sono conscio che la cosa mi si ritorca spesso contro, e anche che in tutti quei casi sono io che sbaglio.

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